domenica 29 luglio 2012

Salute o Lavoro? Se si deve scegliere siamo alla barbarie

A Taranto sta andando in scena tutto il penoso ritardo, tutto il colpevole arretramento di civiltà di cui in questo momento storico è vittima il nostro Paese. Chi non è mai stato nella città dei due mari, la vera culla della Magna Grecia, non sa cosa significhi vivere con l'ILVA. Lo stesso colore della città, la polvere sempiterna che sporca i bucati appena fatti, che arrugginisce i muri, le case, gli arredi urbani. La melma scura sul fondo del mare, il veleno nel latte delle capre e delle pecore, la diossina nelle cozze. Taranto muore da decenni ai fumi e alle polveri sottili del gigante siderurgico e non solo.

Nel 1961, cinquantuno anni fa, fu fatta una scelta sbagliata che però allora sembrò la migliore per un territorio che produceva soprattutto emigranti. Nessuno sembrò ipotizzare uno sviluppo legato all'agricoltura, alla pastorizia, all'artigianato, al turismo. Il futuro, in Italia come nell'Inghilterra o nella Germania del cdpoguerra, sembrava possibile solo con il calore infernale degli altiforni.

Fino a quel momento Taranto era stata soprattutto la città della Marina Militare, dove innumeri italiani di sesso maschile, da ogni regione, erano andati a fare i ventiquattro mesi di naia del tempo. Periodicamente si riempiva di "turisti" che in realtà erano i genitori e i fratelli dei marinai che prestavano giuramento. Fra i due mari, unica città italiana, giocava il suo destino fra la terra fertilissima e le acque azzurre e poco profonde dove da oltre un secolo si praticava l'allevamento dei mitili.

Fu una scelta profondamente sbagliata, come le cattedrali nel deserto della Calabria o le raffinerie della Sicilia. Il territorio fu devastato senza troppe remore: a parte gli oltre ventimila olivi sradicati, furono ridotte in polvere decine di masserie e case rurali, molte delle quali oggi riceverebbero tutela ambientale e archeologica.

L'arsenale del porto, che era stata l'unica "industria" della città, iniziò a morire ma i giovani trovarono lavoro, abbandonarono l'agricoltura e divennero "quelli dell'Italsider". Iniziò così l'inquinamento che ha ucciso migliaia di persone di tumore. Per decenni non si è fatto nulla, nemmeno dopo che ormai era chiaro a tutti quale fosse la situazione.
Oggi, si grida contro una magistratura che in ogni caso è l'unica che non può in nessun caso fare finta di nulla.  E se si parla di chiusura definitiva o di riconversione, ci si scopre improvvisamente operaisti e si grida "in difesa del posto di lavoro".
Ma non si può scegliere fra salute e lavoro. sono due diritti garantiti dalla Costituzione, con eguale forza, con identica sacralità. Se Salute e Lavoro diventano due opzioni che si escludono a vicenda, vuol dire che siamo tornati a uno stadio di semi barbarie.
La veritù è che si sono persi decenni prima che si cominciasse a pretendere dall'ILVA, ora di proprietà totalmente privata, di contenere le emissioni pericolose. Come nel caso dell'amianto, con le sue oltre tremila vittime in tutta Italia, siamo di fronte a produzioni pericolose. Le alternative sono: bonifica vera o chiusura.

Se si sciopera contro un provvedimento di sequestro che non poteva non arrivare, non si sta difendeno il lavoro. Si sta difendendo il diritto a uccidere di un'azienda privata, che a lungo è stata pubblica. E che oggi sia così difficile capirlo, così duro da accettare e così facilmente strumentalizzabile da chiunque voglia farsi una verginità elettorale davanti a undicimila persone che potrebbero perdere il lavoro (e il diritto a morire di tumore), la dice lunga su quanto oggisiano in affanno e in crisi di lucidità anche istanze fondamentali per la vita di un paese come i sindacati.

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